giovedì 18 giugno 2015

Il paese in cui vivo



La storia del nostro paese, negli anni, non è stata insegnata nelle scuole come avrebbe dovuto. Ci sono stati episodi, soprattutto del recente passato che non sono stati nemmeno sfiorati. Troppe le ferite ancora aperte. Di alcuni sono venuto a conoscenza solo qualche anno fa. Della parola Foiba non sapevo il significato letterale, figuriamoci quello legato alla guerra. Ma mi son fatto subito una idea.

Il silenzio dei padri

Mai il genere umano aveva vissuto in un’area così vasta, popolata e importante del globo, come l’Europa, un così lungo periodo di pace e libertà. Tutto questo, lo si voglia o no, è avvenuto grazie all’operato di quei politici che presero il potere subito dopo la guerra ed anche alla coltre di silenzio che fecero calare su alcuni episodi che costellarono il periodo critico del passaggio tra la guerra e la pace. Un silenzio che definirei intelligente e che, consapevolmente o inconsapevolmente, avvolse i naturali strascichi che fecero seguito alle indicibili violenze e sopraffazioni delle guerre diventate inutili. Ma la violenza si sa chiama altra violenza e così alle violenze della guerra sono seguite le violenze del dopoguerra. Si sarebbe innescata una spirale di violenza senza fine se la comunità internazionale non avesse deciso di intervenire nel tentativo di pacificare la nazione e di spegnere i focolai di violenza e di guerra. E l’Italia fu l’ultima a  dover subire l’opera di normalizzazione, subendo l’ennesima ed ultima invasione. Il nuovo invasore, questa volta con intenti pacifici, ma sempre con metodi violenti, venne da lontano per cacciare via dal nostro suolo, il vecchio invasore. Che gli intenti del nuovo invasore, gli alleati per intenderci, fossero pacifici, lo dimostra la storia. Ancora una volta, e non sarà l’ultima, si scomodò il colosso americano, preoccupato, come lo era la Russia, che due dittatori potessero spartirsi il mondo Però, solo con la violenza si sarebbero potuti abbattere due regimi dittatoriali nati con la violenza e non eletti dal popolo, cresciuti con la violenza. L’Italia dovette subire perdite e distruzioni dalla violenza praticata dagli alleati sul proprio territorio, che gioco forza dovette essere più forte di quella della parte avversa. Violenza che si andò ad aggiungere a quella dei tedeschi in fuga.




 Ma ancor di più dovette subire la dilaniante lotta tra italiani che chiedevano la testa di Mussolini considerato causa di tutti i mali, e gli Italiani che erano rimasti fedeli al fascismo. Chi avrebbe comunque potuto dare torto agli uni o agli altri? Una guerra civile che dilaniò il paese per due anni. Un periodo in cui avvennero ritorsioni a delle violenze che già di per se stesse erano state a suo tempo delle ritorsioni, perpetuando così una lunga escalation di violenze su violenze. In questo quadro di ritorsioni continue si inseriscono alcuni episodi che non furono resi di pubblico dominio per non esasperare ancora di più gli animi. Gli episodi delle Foibe non furono altro che ritorsioni come lo furono tanti episodi che oggi vengono alla luce. Gli americani diedero il potere a chi per anni era stato schiacciato dalla violenza fascista, in attesa di regolari elezioni. Ma nello stesso tempo si adoperarono in modo che la violenza non si perpetuasse all’infinito. Contribuirono a chiedere che si posassero le armi per evitare che gli Italiani continuassero a scannarsi tra di loro, e molti lo fecero a cominciare dai partigiani che avevano lottato al fianco degli americani per la cacciata dell’invasore tedesco che i fascisti consideravano amici. Ma bisognava pur mettere un punto a tutta questa storia se si voleva che questo stato rinascesse. A parte i rapporti futuri con i vincitori, si scelse di stendere una coltre di silenzio sugli avvenimenti che si verificarono nei mesi immediatamente successivi alla fine delle ostilità. Non so se fu una operazione consapevole, ma  il complice silenzio di chi governò l’Italia in quegli anni, sortì il suo effetto.







I vincitori volutamente tennero nascosti eventi che avrebbero potuto costituire la partenza per nuove e più sanguinose ritorsioni. Rivelare a suo tempo i tragici e tristi episodi di violenza come quelli delle Foibe, avrebbe significato dare l’occasione alla parte avversa di reagire con la violenza e continuare quindi nelle escalation senza fine delle ritorsioni. Se ciò non è accaduto, il merito va ascritto a chi governò l’Italia in quegli anni, che ebbe e mantenne la consegna del silenzio. Si dirà allora che la ripresa in Italia sia avvenuta nella menzogna, ma penso che fosse una cosa necessaria, e comunque che quello fosse il male minore. Come d’altronde dimostra la storia. Solo in questi ultimi anni, dopo mezzo secolo, quei fatti sono venuti a galla. La distanza temporale da quegli episodi luttuosi permette ormai di vivere con un certo distacco i racconti e le verità tenute nascoste per tanto tempo, senza quel coinvolgimento emotivo che cinquanta anni fa sarebbe stato molto pericoloso. Ora bisogna solo sapere, bisogna che venga finalmente a galla la verità dei fatti. Solo ora che il silenzio finalmente ha pagato.

Roberto Palumbo
Latina 08 07 2010



La resistenza è stato un altro argomento di difficile spiegazione e comprensione. Negli anni passati è stato veramente difficile dare ai giovani una spiegazione esauriente di quello che successo alla fine della guerra. La vicinanza degli eventi hanno sempre impedito e influenzato il racconto dei fatti storici così come sono avvenuti. La presenza, che oggi fa parte del passato di fascisti e comunisti, legati alla storia di quegli anni, ha impedito una serenità di giudizio, necessaria quando si parla di Storia. Adesso penso e spero se ne possa parlare in modo scevro da emozioni di ogni tipo. In pratica dopo gli anni del fascismo, che con la guerra e l'alleanza con la Germania aveva vanificato anche quelle cose legate allo sviluppo della nazione, che aveva fatto, si riaffacciarono alla ribalta gli antifascisti, decisi a punire coloro che venti anni prima avevano preso il potere in maniera violenta facendo man bassa di tutti gli oppositori del regime . Caduto Mussolini e arrivati gli americani si formarono i partigiani, cioè coloro che volevano fondare uno stato democratico in Italia, ed infatti, dopo aver combattuto sulle montagne e giustiziato parecchi fascisti, deposero le armi per consegnarle, e si dettero da fare per la democrazia.


Correva l’anno


La scuola si sa, è sempre stato un mondo pieno di luci ed ombre, lo è oggi quando le ombre sono più delle luci e lo era qualche decennio fa, quando molte cose andavano bene, ma c’era, per esempio, il nozionismo. Per quanto riguardava la storia, spesso si chiedeva all’alunno in che data era avvenuta tale battaglia, e quali e quanti erano gli stati che facevano parte di una determinata alleanza. Non si spiegava, e quindi non si chiedeva in sede di interrogazione il perché tale guerra era scoppiata, gli interessi dei vari stati in una determinata regione. Posso ritenermi fortunato, perché, negli ultimi anni del liceo, ho avuto un professore di storia che aveva un modo di insegnamento del tutto particolare, e soprattutto non si fermava ai primi del novecento.






Andava ben oltre, ed arrivava a parlare anche del fascismo, che, in quegli anni, in cui le ferite erano ancora semiaperte, era tabu. Parlare di fascisti e partigiani in modo sereno e distaccato, era difficile perché c’era ancora gente che aveva vissuto quel periodo. Così ricordo che un giorno il professore se ne usci con  “Oggi parliamo dell’attentato di via Rasella, chi mi sa dire qualcosa?” Nell’aula piombò il silenzio e tutti si ammutolirono. Io confesso di non averne mai sentito parlare, a sedici diciassette anni. Solo un ragazzo alzò la mano. Era di origine sarda, figlio di militare e, per quanto ne sapessi, era appassionato di aerei ed elicotteri. Fino ad allora mi era anche simpatico. Il professore con il quale c’era un rapporto abbastanza amichevole gli diede la parola, e l’amico, esperto in materia, esordi dicendo che, quello di via Rasella, era un vile attentato terroristico, fatto dai partigiani contro le truppe tedesche, e contro il quale i tedeschi reagirono fucilando i presunti colpevoli nelle fosse Ardeatine. Qui si chiudeva la “spiegazione” di quell’episodio della ultima guerra mondiale da parte dell’amico esperto. Era comunque l’unica voce che si era levata in una classe di una trentina di alunni, Correva l’anno 1966, o giù di li. Per il resto, silenzio ed ignoranza totale. “Nessun altro sa dirmi qualcosa?” ci stimolò il professore. Silenzio assoluto. “Anche io la penso come il vostro amico” disse “comunque vi invito ad andare in biblioteca e cercare qualcosa sull’argomento per farvi una opinione sull’argomento” Nel frattempo cercherò di darvi qualche elemento in più” Ci spiegò della occupazione tedesca e del fatto che Roma stava per essere abbandonata, perché gli americani erano alle porte e stavano facendo una strage dalla Sicilia al Lazio. Ci disse che i tedeschi avevano diritto a difendersi e altre cose. Fesserie, dico oggi, col senno di poi. Ma una opinione quasi tutti se la fecero nel leggere come erano andate le cose.




Qualche giorno dopo, quando la discussione riprese sull’argomento, si erano creati due schieramenti contrapposti. Quelli che erano d’accordo con l’amico e con il professore, e quelli, tra cui il sottoscritto, che sostenevano che: intanto i tedeschi avrebbero dovuto restarsene a casa loro, senza venire a casa nostra a comandare, anche se chiamati dal regime fascista. Poi il regime non era stato eletto democraticamente e quindi era abusivo, come diceva qualcuno. L’attentato non era terroristico, ma bensì un atto di guerra. Guerra che i tedeschi avevano cominciato e avevano voluto, in accordo con i fascisti. I partigiani volevano la libertà del paese e volevano cacciare l’oppressore interno e quello venuto da fuori, così come la vollero durante il risorgimento coloro che, poi, divennero eroi. Non a caso, finite le ostilità essi riconsegnarono le armi. Non a caso, allora, erano venti anni e poco più di pace nel nostro paese, e oggi sono diventati settanta. Il guaio è che ancora oggi c’è chi la pensa come il professore, quel mio amico, e come quel capitano da poco passato a miglior vita e responsabile dell’eccidio delle fosse Ardeatine, assurda rappresaglia all’episodio di via Rasella.
Roberto Palumbo
Latina 27 10 2013

Dopo quel 1966 ho sentito parlare ancora numerose volte del fascismo e della resistenza, ma raramente a scuola. E così di anno in anno, quegli eventi si allontanavano sempre più nel tempo, diventando sempre meno attuali. I giornali ne hanno sempre parlato, chi in un modo chi in un altro. Ma quello che succede oggi è che ancora molti giovani simpatizzano per quel periodo e francamente, non ne capisco il motivo.



Venticinque




Sono stato al nord per una breve vacanza. Li i giornali hanno dato molto rilievo a quello che è successo in un paesino della Emilia Romagna. Ebbene là dove i tedeschi,mentre battevano in ritirata,incalzati dagli alleati che avanzavano,facevano stragi assurde, oggi i giovani non sanno e non vogliono saper niente di quello che successe nei mesi precedenti il 25 aprile del1945. Così sucede che una giovanissima ragazza, che si è buttata in politica, sottoscriva una frase apparsa su face book che esaltava il disprezzo nei confronti di quella data, dei partigiani e di tutti coloro che “tradirono”. Non so se oggi i ragazzi studiano la storia del fascismo e se hanno ben chiaro il susseguirsi degli avvenimenti. Quando ero ragazzo io, erano troppo vive le ferite della guerra e si era ancora tropo coinvolti per poter avere delle idee in merito, che fossero prive di condizionamenti. Ma oggi si può, i ragazzi di oggi dovrebbero essere più distaccati, e, a parte la loro militanza in qualsiasi formazione politica, dovrebbero cercare di capire la storia  così come essa si è dipanata nel corso degli anni. Il fascismo andò al potere in maniera violenta e non con libere e democratiche elezioni, per cui non è stata una forza di governo legittima, né legittimata dal consenso popolare. Fino ad alora però così si usava fare. Il consenso venne successivamente perché, all’epoca, o si era fascisti, oppure si aveva una vita dura. Da qui le adunate oceaniche dove quello che diceva il Duce era vangelo.






 Chi non era d’accordo doveva restare nell’ombra e in silenzio. E’ vero il duce fece tante opere pubbliche, ma soprattutto per fare grande la nazione, fece educare masse i bambini e ragazzi, ma soprattutto perché gli servivano uomini  per fare la guerra. Poi, errore gravissimo, si buttò nelle braccia della Germania, per allearsi con un altro dittatore con cui conquistare il mondo, ma che poi ci invase diventando padrone a casa nostra. Infine, altro errore, volle prendere parte, buon ultimo, al banchetto del colonialismo in Africa. E sono questi gli errori che alla fine pagò. Anzi pagarono gli Italiani. Non so se, con questi presupposti, sia possibile chiamare traditori quelli che non erano d’accordo con tutto ciò. Naturalmente onore al merito di coloro che invece andarono a far parte della Repubblica di Salò. Erano tutti ragazzi cresciuti durante il regime, ed era logico che fossero infatuati di quelle idee che il regime aveva loro trasmesso.

 
 




 Pensavano insomma di essere nel giusto. Ma non si possono chiamare traditori coloro che scelsero di stare dall’altra parte. La loro patria stava andando a rotoli per colpa del loro capo, e soprattutto per colpa di un pazzo visionario che aveva portato le sue truppe sul nostro suolo. L’Italia era diventata proprieà tedesca. E se chiamiamo traditori coloro che li hanno ricacciati a casa loro, dovremmo chiamare traditori anche coloro che, molto prima, i francesi, gli austriaci e tutti i dominatori che fecero del nostro suolo un bivacco per le loro truppe, e non solo, che hanno saccheggiato il nostro territorio, che hanno ucciso e stuprato ed hanno sempre considerato il nostro stivale come terra di conquista. Quei tempi ormai sono finiti e sono traditori solo coloro che non festeggiano il venticinque.
                                                                                                                       Roberto Palumbo

12 05 2012





Ma durante il fascismo accadevano anche alcune cose buone. Nelle patrie galere, per esempio a Ventotene c'era già chi pensava all'Europa e si dava da fare per unire in maniera federalista gli stati usciti dalla guerra e per fare gli Stati Uniti d'Europa





Europa



Durante il fascismo, nelle patrie galere c’era già chi sognava l’utopia della integrazione politica degli stati europei. Infatti sulla base degli scritti di Luigi Einaudi e leggendo i testi di alcuni federalisti anglosassoni, un certo Altiero Spinelli, ex comunista che aveva partecipato alla lotta clandestina contro il fascismo, mentre scontava dieci anni di prigione e sei di confino a Ventotene, elaborò insieme a un certo Ernesto Rossi, il cosiddetto Manifesto di Ventotene.



Ventotene


 Un altro francese, un certo Monnet nel 1943 aveva detto: Non vi sarà pace in Europa, se gli Stati si ricostituiranno sulla base della sovranità nazionale... I paesi d'Europa sono troppo piccoli per garantire ai loro popoli la prosperità e l'evoluzione sociale indispensabili. E' necessario che gli Stati europei si costituiscano in federazione. Intanto Rossi e Spinelli, in carcere, avevano elaborato questo progetto partendo da una approfondita analisi della crisi dello stato nazionale. La loro convinzione era che solo superando la sovranità assoluta di ciascuno stato, mediante la creazione di una Federazione Europea, si poteva assicurare la pace nel vecchio continente. Quella del federalismo tra stati era una idea rivoluzionaria rispetto alla ideologie tradizionali come il liberalismo, la democrazia o il socialismo. Finita la guerra fu subito chiaro che i governi europei non sarebbero stati capaci di garantire in maniera autonoma la sicurezza dei cittadini e la loro indipendenza economica e allora la sola scelta ragionevole fu quella della unità europea, rendendo possibile l’attuazione delle idee federaliste. Fin dal 1950 i governi cominciarono a lavorare sulla via dell’unità politica. Fu un cammino lento e graduale e, comunque non vennero rispettate fino in fondo quelle che erano le linee tracciate da Monnet e Spinelli per la integrazione di tipo federalista degli stati europei; d’altronde lo stesso Spinelli sapeva che l’attuazione di quelle idee sarebbe stata lunga, infatti aveva chiuso il suo Manifesto di Ventotene con questa frase “La via da percorrere non è facile né sicura, ma deve essere percorsa e lo sarà.” Dopo l’atto costitutivo della unione europea siglato a Roma nel 1957 nel giugno del 1979 ci fu la prima elezione diretta, da parte del popolo, dei parlamentari europei. In quella occasione si registrò una percentuale di affluenza alle urne del sessantatre per cento circa.

 
 




 
Ernesto Rossi e Altiero Spinelli
 
 
 
 
 All’interno del Parlamento eletto a suffragio universale Spinelli continuò la sua lotta, cercando di mettere in atto il metodo costituente. Secondo lui, se da un lato bisognava convincere gli Stati a cedere parte della loro sovranità a favore di un governo sopranazionale e dall’altro bisognava far partecipare il popolo europeo alla definizione di una costituzione che stabilisse la forma e i compiti della nuova unione tra gli Stati. E nel 1984 il parlamento europeo stava per portare a termine la battaglia costituente iniziata da Spinelli. In quella occasione il Parlamento europeo elaborò un progetto di Trattato di Unione, che però non fu approvato successivamente dai Governi, i quali invece approvarono un Atto Unico per l’istituzione di un mercato interno caratterizzato dalla libertà di circolazione di merci, servizi, capitali e persone, a partire dal 1993. Si privilegiò insomma una unione economica ad una unione politica che invece avrebbe dovuto essere la priorità. La debolezza della Europa di oggi sta proprio in questo, nella mancanza di coesione politica tra gli stati. Si dice che l’unione  fa la forza e la forza economica non è nulla se non c’e la forza politica. Ce lo insegna la crisi di questi anni, mentre negli USA i vari stati sono compatti in Europa ci sono stati deboli e stati più forti. una Europa insomma a più velocità. adesso sembra che gli Stati si stiano accorgendo che è necessaria quell’unità politica che a suo tempo non fu perseguita a vantaggio di quella economica. La speranza oggi è che, superata la crisi, almeno i nostri figli possano eleggere oltre a un parlamento europeo, un capo di stato o un primo ministro europei, come avrebbe desiderato Spinelli, una figura ancora troppo poco conosciuta della nostra storia.
Roberto Palumbo
latina 20 07 2011



Questi fermenti che già durante il fascismo prendevano corpo, come sappiamo ebbero grazie a Dio un seguito negli anni successivi 

domenica 10 maggio 2015

La città in cui vivo



La città di provincia è Latina, giovanissima cittadina Laziale posta al centro di una pianura che davanti ha il mare Tirreno e dietro i monti Lepini, un clima mite una posizione invidiabile ma un vicinanza ingombrante, la città di Roma. Il cittadino sono io, e basta leggere qui affianco il mio profilo. 
 


Il dottor Pietro Antonelli, direttore de Il Settimanale, giornale che fino allo scorso anno era in edicola ogni settimana, e che mi ha visto tra coloro che ad esso inviavano delle lettere, ha creduto bene di intitolare il mio spazio “Uno sguardo sulla nostra società” Per questo lo ringrazio pubblicamente, segno che ha creduto in quello che modestamente andavo dicendo settimanalmente, dal 2008 al 2014. Oggi, raccogliendo quelle lettere, mi piacerebbe raccontare una storia. La storia del nostro tempo, quello che stiamo vivendo e che passa così in fretta. La storia del paese in cui vivo e quella della città in cui vivo.

 

La città in cui vivo

Non sono nato a Latina ma è come se lo fossi, ho sempre vissuto qui, e fin da piccolo. Conosco bene la storia di questa città. Una storia fatta di occasioni perse, di speranze inutili e di scarse realizzazioni. Una città che ha conosciuto gli anni in cui era tutta racchiusa in una circonvallazione, all’interno della quale si viveva come in un paese. Ha conosciuto poi numerose servitù dello stato come il campo profughi, la nucleare il poligono di tiro dell’esercito e tante altre realtà. Il mare a sei chilometri, i monti a nove con la stazione ferroviaria per anni è come se non avesse avuto né l’uno né gli altri, e lenta è stata la sua crescita. Una città giovanissima che vorrei raccontare con le mie lettere scritte al settimanale e con altri scritti. Oggi, dopo aver tanto sofferto per questa mia città, la quale andava perdendo ogni treno che facesse finta di fermarsi alla stazione, mi sto facendo una ragione per questa sua incapacità ad emergere pur essendo una provincia ed anche avendo oggi un discreto numero di abitanti. Mi pare più di cento mila!!! Ma le età delle città non si misurano in poche decine di anni, ma in centinaia, e forse qui i politici hanno sempre pensato in grande rimanendo sempre con un pugno di mosche in mano. Forse per ottenere la grande realizzazione (terme, bretelle, raccordi, metro), bisognerebbe prima cercare di realizzare la città e i cittadini, i quali a onor del vero, qui sono stati sempre carenti. Penso che la situazione sia stata ben inquadrata dal mio racconto “La città che non c’è” scritto nel e partecipante al concorso letterario" Ego racconto Latina" nell’anno    del quale ha vinto il primo premio. Una grande soddisfazione per me anche perché in esso non sonno stato affatto gentile con gli amministratori. Eccolo di seguito prima di entrare nel vivo delle lettere pubblicate.

 

La città che non c’è


 

Cammino per Latina, da solo, in uno di quei pomeriggi assolati con il continuo ritornello delle cicale nelle orecchie. Non si ferma un attimo. Le strade sono deserte. Le serrande dei negozi sono tutte rigorosamente chiuse, anche quelle dei bar. La fontana di Piazza del Popolo, quella vicino alla palla, rimane, da tempo immemorabile, l’unica possibilità per dissetarsi in questa calura opprimente. La piazza si crogiola al sole mentre lo sguardo si perde oltre le quinte dei portici di marmo verso viali alberati, e lungo gli assi di questo ottagono pensato come fosse al centro del mondo. Un mondo nuovo, là dove non c’era altro che una tabula rasa. E si sa, sopra una tabula rasa si può fare tutto e il contrario di tutto. So benissimo che basterebbero cinque dieci minuti di macchina per raggiungere delle mete dove il cervello non corre il rischio di liquefarsi come al centro di questa desolata e desolante calura. Il mare con le sue brezze continue, le colline con la loro frescura, villa Fogliano. Ci vorrebbe un attimo. L’orologio del campanile batte due soli rintocchi che sembrano perdersi lontani e sciogliersi nel caldo opprimente della controra. Seduto sulla panchina, davanti alla vasca desolatamente vuota osservo la palla, ferma, immobile, granitica.




 

E mi ricordo che qualche tempo fa qualcuno avrebbe voluto toglierla e sostituirla con non so che cosa. Ma come, proprio quello che forse è l’unico simbolo di questa giovane città. Un mito per noi giovani che abbiamo vissuto la Latina degli anni cinquanta quando eravamo ancora ragazzini e venivamo qui a giocare per rincorrerci intorno alla vasca o tra i vialetti delle aiuole. Le piantine erano nane, proprio come ora, il lastricato fatto, proprio come ora, con quelle pietre bombate che ti massaggiano le piante dei piedi. I piccioni ancora non c’erano, ma noi venivamo lo stesso il sabato pomeriggio o la domenica pomeriggio, col vestito della festa per rincorrerci sotto l’occhio vigile dei genitori, prima di andare verso il polo nord per il gelato di rito. Altro mito di questa città. E forse, a pensarci bene, ci siamo portati dietro, mi riferisco a quelli poco più che cinquantenni, non pochi miti e qualche sia pur minima tradizione. Roba da poco, è vero, ma era comunque un inizio. E la sensazione è che, dopo quel timido inizio, tutto si sia fermato, come imbalsamato o per lo meno oppresso da questa calura. Sembra che le generazioni successive si siano dissolte e non abbiano più avuto la voglia, la capacità o la possibilità di stare insieme alla propria città, di viverla, di farla propria. Ma sarà stata proprio colpa loro?

Il mio sguardo si posa all’improvviso su qualcosa che mi distoglie dai pensieri che stavano per portarmi lontano, verso una strada senza ritorno, una strada molto lunga, e una storia altrettanto lunga e complicata sulla quale ci sarebbe da scrivere un romanzo, o un poema. Il mio sguardo, dicevo, va a posarsi su quei palazzi così estranei alla piazza stessa, concepita per essere il simbolo della città,






 così alti, brutti, anonimi e senza significato che turbano la vista dalla piazza, mi sembrano un pugno nello stomaco e una offesa alla città tutta. A due passi da lì, uno di essi ha addirittura la facciata ancora grezza. Sono palazzi che nulla hanno a che fare con la mia giovane città e forse sono lo spartiacque tra la prima cittadina che stava a stento cercando il motivo della sua esistenza e quella città successiva che è riuscita a bloccare questo processo grazie alla dissennata e insensata voglia di mettere le mani sopra questo territorio ancora vergine da parte di gente senza scrupoli, o per lo meno, incapace di pianificarne la crescita e lo sviluppo. Eppure, come ho detto qui non c’era altro che una tabula rasa. Me ne vado ancora più desolato, per la paura che il caldo potesse liquefare anche i miei pensieri.

La sera, comodamente seduto al mio tavolo di lavoro, ripenso alla calura del pomeriggio in Piazza del Popolo e riordino i miei pensieri. Ripenso al perché questa città si sia come fermata, mentre il mondo proseguiva la sua corsa. Per anni Latina è rimasta città a misura d’uomo, mentre fuori la vita andava avanti, nel bene e nel male. Una forma di apatia ha ricoperto uomini e cose. Un’aria ovattata, quasi immobile e stagnante ha come imbrigliato per anni i pensieri e le coscienze, mentre le esperienze di noi universitari a Roma ci portavano a contatto con i cambiamenti e le trasformazioni della società. Evidentemente in quegli anni, una volta iniziato l’assalto al territorio, pur con il tentativo di dare ad esso una regolamentazione attraverso il piano regolatore degli anni settanta, si deve essere esaurito quel processo  di aggregazione che gli anni cinquanta e sessanta stavano operando su noi giovani. Chi doveva dare ai cittadini nuovi strumenti urbanistici per una città che tuttavia stava conoscendo una crescita in termini demografici, non seppe, o non volle, o non potè pianificare e programmare uno sviluppo idoneo alla crescita dei cittadini e capace di stimolare le coscienze. Sul piano pratico la nuova città fu carente di quelle strutture capaci di aggregare persone e di formare i cittadini.

Nel tentativo di approfondire questo concetto ricordo di aver letto da qualche parte che la città è un fatto di cittadini e non un fatto di politici e architetti, ed è insieme ai cittadini che essi debbono creare le condizioni ottimali perchè tutti possano essere, nella città, protagonisti responsabili (i politici) e debbono saper parlare e capire la lingua della città (gli architetti). A Latina questa simbiosi tra cittadini, politici e architetti è mancata. A mio parere perché questi ultimi non hanno saputo dare ai cittadini qualcosa per cui valesse la pena spendere la propria esistenza e da cui sentirsi rappresentati. Si perché, se è vero che la città la fanno i cittadini, è anche vero che politici e architetti debbono dotare i cittadini di strumenti validi per vivere la propria città. Quello che è successo a Latina, da quando il primo nucleo centrale esaurì la propria funzione aggregante, è indicativo di questa mancata simbiosi tra cittadini, politici e architetti, e sta alla base del fatto che oggi viviamo una città che è difficile da definire. Una città in cui è difficile riconoscersi e da cui è difficile sentirsi rappresentati, priva come è di punti di riferimento, o meglio, rimasti pressocchè quelli degli anni sessanta.

Vorrei cercare di capire e di spiegare a me stesso il perché di tutto ciò, e allora parto da lontano, scavando nella memoria.  C’era una volta….il giro di Peppe. A Latina. Quando Latina era ancora poco più che un grosso paese. Una cittadina tutta delimitata dalla circonvallazione, con le sue belle strade, ampie, alberate, i suoi bei palazzi, senza storia ma decorosi, le sue piazze, i suoi edifici pubblici, le aiuole ben curate. Il giro di Peppe era il cosiddetto “centro di aggregazione”. Un giro di marciapiedi intorno ad un isolato di palazzi, con diversi negozi, bar, pasticcerie, alimentari, abbigliamento, persino un grosso supermercato. Poco lontano il mercato coperto, due cinema ed altri servizi per la gente, anagrafe, prefettura, questura e così via. Un punto di aggregazione dove gli abitanti potevano incontrarsi, parlare tra loro, passeggiare la sera prima di cena o la domenica mattina, favorendo la formazione di idee comuni per dare corpo all’idea di cittadini e quindi a quella di città.

La cosa non era comunque semplice e avrebbe richiesto un lungo periodo di tempo. Perché la giovane Latina non era una città come tutte le altre. Perché si trattava di mettere insieme gente venuta da altrove e trapiantata qui. Gente che aveva portato con sé la propria cultura, le proprie tradizioni, che, naturalmente, avrebbe trasmesso ai propri figli nati in terra pontina. Ormai la storia la sanno tutti. A quel tempo solo i minorenni potevano dire di essere nati a Latina. I giovani e gli adulti erano tutti nati altrove. Non era quindi facile che si realizzasse quel processo di aggregazione tra persone con diverse culture e con usanze diverse. E certo non potè realizzarsi in quegli anni in cui la città era tutta racchiusa all’interno della circonvallazione. Ancora molti anni sarebbero stati necessari.

Latina crebbe con velocità sorprendente e presto si sentì la necessità di darle la possibilità di un nuovo sviluppo, oltre il guscio della circonvallazione. Me nel realizzare questo sviluppo più ampio, per poter soddisfare l’incremento demografico che avveniva un po’ ovunque, si sarebbe dovuto tener conto di questa realtà locale del tutto particolare. Latina non era un paese piccolo al quale dare uno sviluppo diverso da quello tutto raccolto intorno ad un centro, come era stato fino ad allora. Qui c’era la città, ma bisognava ancora fare i cittadini. Solo essi avrebbero potuto rafforzare ulteriormente l’idea della città nella quale vivevano. Forse, ma nessuno potrà mai dimostrarlo, quell’unico piccolo centro di aggregazione stava già operando in questo senso, e penso che nel progettare il futuro sviluppo della città si sarebbe dovuto favorire questo processo, magari creando poco lontano altri centri d’aggregazione. Mi spiego, forse altri “giri di Peppe” o altre piazze avrebbero potuto essere ritrovo dei futuri cittadini di Latina. Immagino una città che si espandeva a macchia d’olio nel territorio immediatamente circostante alla circonvallazione. Un tessuto urbano senza soluzione di continuità dove sarebbe stato facile spostarsi e interagire per gli abitanti dei vari quartieri. Si preferì invece porre in essere un megaprogetto, fatto di idee all’avanguardia, ma che, a mio modesto parere, aveva due grossi difetti. Primo era difficile da realizzare per una città come la Latina di allora; avrebbe richiesto enormi spese e tanto tempo. E di tempo infatti ne è passato tantissimo senza che una minima parte di quel progetto sia stata realizzata. Certo quel centro lineare di servizi avrebbe avuto una grande capacità di aggregazione, se fosse stata realizzata come da progetto, ma la sua realizzazione avrebbe richiesto tanto tempo. Per contro i cittadini avevano bisogno di altri centri di aggregazione realizzabili in tempi brevi, per completare quel processo necessario per proseguire quel processo di formazione come appartenenti ad una città nuova. E infatti ancora oggi stiamo aspettando che quel centro lineare di servizi venga completato. Un fatto comunque è certo, che non sarà mai più realizzato così come era stato progettato.

E’ vero che c’è stata la crisi e i progetti si sono ridimensionati, ma indubbiamente l’opera era troppo faraonica. Anche su questo fatto della crisi intervenuta durante gli anni settanta ci sarebbe da eccepire. Si perché una crisi non può essere una scusante, tale da giustificare la mancata o la alterata realizzazione di un tale progetto. Infatti la crisi, che poi fu di portata mondiale, doveva e poteva essere prevista. E doveva essere uno dei parametri di cui tenere conto nella adozione di un progetto di sviluppo della città. Secondo difetto è stato quello di aver diviso la residenza dal centro di servizi, per intenderci le case abitate dai negozi e dagli uffici. L’idea certamente è validissima e non sarò certo io a dirlo, ma penso che una operazione del genere si poteva fare e si può fare in quelle città in cui il processo di aggregazione dei cittadini sia già completato. Dove cioè esistono già dei cittadini e l’idea di città sia già formata.

Questa separazione tra le due funzioni della città, ha portato alla realizzazione di veri e propri quartieri dormitorio. Infatti la realizzazione delle residenze è andata avanti spedita e comunque non di pari passo con quella dei servizi. Questo perchè la costruzione di case per abitazioni è più appetibile per amministratori, progettisti,  impresari e per tutti coloro che ruotano intorno a questo business. La creazione di questi nuovi quartieri ha calamitato gli abitanti del centro storico che è andato progressivamente svuotandosi. Parallelamente il centro lineare di servizi ha segnato il passo, sia perché mancò la volontà politica di realizzarvi grosse opere ed edifici pubblici nuovi in quelle aree, sia perché mancò la richiesta da parte di quegli uffici pubblici di spostarsi nel centro direzionale.

E’ curioso appena ricordare come qualcuno dei responsabili di uffici che si voleva portare in quel nuovo centro, ebbe a dire di non volersi spostare dal centro storico perchè il nuovo posto dove sarebbero sorti gli uffici, sarebbe stato troppo lontano. Ma dico io, e allora nessuno lo disse, lontano da che? lontano da chi? lontano da cosa? Forse dalla palla di piazza del Popolo? Si è persa insomma una occasione per creare lì la nuova città. E penso che i politici avrebbero dovuto spingere in questa direzione. Invece niente. Quel verme centrale si è riempito anch’esso di abitazioni, e per giunta di scarsa qualità.

Mi domando allora, in queste condizioni, con la gente fuori dal centro storico e le residenze sparse nel territorio, i centri di aggregazione in parte realizzati, in parte ancora di là da venire, come si sarebbe potuto formare quell’amalgama necessario alla formazione di una cultura cittadina,di una identità comune, di una idea comune di città? A qualcuno sembra che oggi, con la costruzione dei nuovi centri commerciali si stiano dando  finalmente quei tanto sospirati centri di aggregazione. In parte può essere vero, ma in questi che gli esperti definiscono “non luoghi” si resta sempre lontani dall’idea di città, perché comunque essi non caratterizzano la città stessa e sono uguali ovunque. Ben vengano quindi i centri commerciali, ma in quelle città che già sono nettamente connotate e i cui abitanti siano già dei cittadini nel vero senso della parola. Sarebbero dei punti di ritrovo in più. Ma non si può certo dire che piazza del Seminatore sia una piazza di Latina. Come altre piazze dei centri commerciali è una piazza artificiale che non potrà mai caratterizzare la città.Eppure oggi a Latina si discute molto su questo abnorme fiorire di centri commerciali. Pare addirittura che la nostra città sia ai primi posti in Italia per la presenza di questi centri in base al numero degli abitanti. Penso che ciò avvenga a causa del tipo di sviluppo che in alta sede si decise di dare, a suo tempo, alla città. Non si privilegiò infatti uno sviluppo molto più normale e più facilmente realizzabile. Oggi infatti alla nostra città mancano le strade fiancheggiate da attività commerciali e dagli uffici. Corso della Repubblica, Corso Matteotti e Via Emanuele Filiberto più qualche altra strada del quartiere Isonzo e del quartiere Tribunale, non possono soddisfare la richiesta della popolazione in termini di servizi commerciali. E così il tipo di sviluppo che la città ha vissuto in questi ultimi anni ha fatto si che solo la grande distribuzione nelle aree ancora libere potesse soddisfare questa richiesta.

Ciò forse sarebbe successo in misura minore se, a suo tempo, si fosse deciso di dare alla città uno sviluppo più che normale: i soliti viali che si incrociano in ampie piazze, ai lati edifici con negozi uffici ed abitazioni. Tutto questo possibile e semplice sviluppo è stato sacrificato sull’altare di una idea di città nuova difficile da realizzare da queste parti e che comunque avrebbe richiesto molto tempo per essere realizzata. E infatti oggi è sotto gli occhi di tutti la frammentazione del tessuto urbano, tra residenza, servizi, centro storico e grande distribuzione che sembrano deposti a caso sul territorio senza un disegno unitario, né un senso comune.

Per questo penso sia difficile che oggi qualcuno possa passeggiare per le strade della città nuova, che so, viale Paganini o via Bruxelles, provando quella sensazione che ho provato io, nel pomeriggio, in Piazza del Popolo. Quella sensazione cioè, piacevole e nostalgica al tempo stesso, di identità, di appartenenza ad un luogo. Quella sensazione cioè che ti fa sentire come fossi proprio a casa tua. In fondo quella piazza, insieme a quel giro serale, stava facendo la funzione per la quale era stata progettata.

Non altrettanto penso abbia fatto la città nuova, frammentaria, incompleta e senza identità. Senza piazze senza nuovi punti di aggregazione, senza quei bei viali alberati fiancheggiati da negozi, che altre città possono vantare, dove si passeggia, si conosce la gente, dove si parla, camminando o seduti ai tavoli di un caffè, dove ammirare le vetrine o fare la spesa. Per anni Latina è rimasta ancorata al suo centro che nel frattempo si andava svuotando di tante funzioni per acquisire un aspetto sempre più spettrale e popolato di fantasmi. E più la residenza in periferia rubava spazio alla campagna e agli eucalipti, più il centro perdeva la sua linfa vitale, in preda ad una emorragia inarrestabile. Ma a questa inesorabile perdita di funzioni del centro non corrispondeva una adeguata risposta alle esigenze di una popolazione in crescita, come sarebbe stato logico.

E così oggi i giovani di Latina dove si incontrano? Negli stessi posti in cui ci incontravamo noi quaranta e trenta anni fa, il Polo, Piazza S. Marco, il Giro di Peppe. Partono dal Nascosa o da altri quartieri periferici e vanno a popolare quei portici e quei viali rimasti da soli a soddisfare le loro esigenze di socializzazione, salvo poi abbandonarli alla stessa ora in cui li abbandonavamo noi. Uniche differenze: il mezzo di trasporto passato dalle scarpe al motorino, e il fatto che  la sera noi tornavamo, il più delle volte, a casa, loro invece sciamano nei Pub, nelle Pizzerie e nei locali. La vita, e con essa le generazioni, è cambiata. Ma Latina è rimasta sostanzialmente la stessa.

Come figlio di questa città, anche se adottivo, ho spesso riflettuto, con un sentimento misto di rabbia, delusione e rassegnazione sull’incapacità storica di chi per decenni ha retto le fila dello sviluppo di questa città. Incapacità di politici che oggi possono dire di aver creato una città che non c’è, che non esiste, perché non esistono i suoi cittadini. Incapacità di architetti che hanno creduto di poter esercitare la loro infinita scienza urbanistica e di poter applicare le loro rispettabilissime idee sulla città del futuro in un posto sbagliato.

Lo dico, è vero, col senno di poi. Ma non sono né politico e né architetto, sono un semplice cittadino ormai rassegnato e deluso, ancorché arrabbiato per lo stato di abbandono in cui versa la propria città. Stato che si evidenzia ancora di più ogni volta che torno dall’aver visitato un’altra città. E non parlo di metropoli, parlo di città come Matera, L’Aquila, Benevento, Perugia, Arezzo. Città con la loro storia, è vero. Ma penso che è ora di finirla con la storia della Storia. Latina ha ormai parecchi decenni. Di storia e di storie ne ha da raccontare tante, basta solo saperle dire e fare in modo che le sue strade, le sue piazze, le sue mura, le raccontino.

La memoria del passato si crea operando nel presente per un futuro degno di essere vissuto. Ma di ciò non si è tenuto conto da parte di chi doveva farlo. E per questo che, a parte quanto di bello e di buono questo territorio può mettere in mostra e può raccontare del suo passato più lontano, di quello recente, purtroppo, le uniche cose (o quasi) che si possono dire, sono quelle che ho detto fino ad ora e che ho voluto provare a ripetere in versi, nella speranza di essere più esauriente.

C’era una volta una città. Una città che oggi non c’è. E c’erano una volta dei cittadini scappati, o fatti fuggire oltre le mura invisibili della circonvallazione e dispersi nella piana. Oggi quei cittadini sono in cerca, e chissà per quanto ancora lo saranno, di una loro identità, di un luogo al quale sentirsi legati, per non continuare a vagare come fantasmi dentro le mura di un centro storico vuoto e spettrale.                                              

 

 

 

 

 

E la storia allora può iniziare con una favola..........



 
 
 
Il gigante e la bambina

(Una favola moderna)


 

 

C’era una volta una vecchia signora. Aveva più di duemila anni e tutti la chiamavano Mammaroma. Non era vecchia decrepita e suoi anni se li portava ancora bene. Passava infatti la maggior parte del suo tempo a imbellettarsi e a curare la sua pelle che non aveva ancora rughe. Spesso si recava nelle beauty farm da dove usciva rigenerata e ancora più bella, Solo in alcuni momenti di depressione, rari per la verità, si lasciava andare e mostrava inequivocabilmente i suoi anni. Aveva una figlia, una bimba ancora piccolina di soli settanta anni che si chiamava Latina. L’aveva avuta, non si sa come, quando era già in menopausa durante una storia con un certo Benito, un uomo forte e muscoloso venuto da fuori che si stabilì vicino a lei, e con lei visse per soli vent’anni. Una storia molto breve, ma piena di passione. Mammaroma non si era mai sposata ma aveva avuto solo dei rapporti fugaci e non aveva avuto mai figli, non si sa se per scelta sua o dei suoi uomini. Solo Benito ci riuscì. Il rapporto con Benito fu l’ultimo ma più intenso, anche se reso più complicato, come del resto avveniva da duemila anni, dalla vicinanza con la famiglia Papato che spesso si impicciava dei fatti suoi e le creava un mucchio di problemi. Dopo vent’anni di convivenza, durante i quali mammaroma divenne ancora più bella, Benito, che dapprima era molto ben voluto, fu ucciso da alcuni facinorosi perchè, dicevano, aveva tirato troppo la corda e pretendeva troppo da Mammaroma. Ma forse una sua colpa era anche quella di volere troppo bene a sua figlia Latina. Mammaroma, invece non voleva molto bene a questa sua figlia avuta, no si sa come, quando era già in menopausa. Latina cresceva ed era una bella bambina, ma la madre molto spesso non se ne curava.





La natura era stata prodiga con lei, ma le sue naturali bellezze non venivano valorizzate dalla mamma, tutta presa a valorizzare le sue. La mamma infatti pensava solo ai profumi e le creme per il suo viso. Di balocchi per la sua figlia, nemmeno l’ombra. Spesso la vestiva di stracci e l’abbandonava per strada costringendola a chiedere l’elemosina. E lei piangeva, anche se voleva bene alla sua mamma. Latina, durante la sua vita, conobbe alcuni ragazzi, che dissero di avere buoni propositi e che avrebbero fatto di tutto per toglierla dalle grinfie della mamma cattiva, ma poi anche loro caddero nella trappola. La sudditanza con Mammaroma, l’incapacità di fare il loro dovere e le continue risse degli amici della bambina, ebbero come unico risultato quello di impedire una crescita sana ed equilibrata di Latina che entrava spesso in depressione e rimase piccola, con gravi problemi di crescita. La bimba però aveva un viso meraviglioso e, pur se piccolina, era ben proporzionata. Alla ancora tenera età di settanta anni era molto bella  ed era molto desiderata, checché ne pensasse la mamma. Nell’epoca del villaggio globale, quando le notizie facevano il giro del mondo, in un baleno grazie ad internet, si sparse la voce della esistenza di questa bella ma sfortunata bambina figlia di una mamma tanto cattiva con lei. Di lei si seppe in tutti e cinque i continenti, ma soprattutto nel paese dei Lillipuziani dove ormai da tempo si era stabilito Gulliver il gigante. Gulliver ormai viveva da tempo con i suoi piccoli amici. Era tranquillo, ma un poco annoiato e i suoi piccoli erano da tempo preoccupati. Quando venero a sapere della storia di Latina lo fecero presente al Gigante e gli dissero in coro: “Gigaaanteee…pensaci tuuuu” Fu così che Gulliver il gigante parti per la missione più importante della sua vita. Partì, con il suo veliero, attraversò l’oceano ed entrò nel Mediterraneo. Passata la Sardegna, Intravide da lontano con il suo potente cannocchiale la torrepontina, la più alta del mezzogiorno, ma ebbe la sgradita sorpresa di non poter attraccare, con il suo veliero, da nessuna parte. Sapeva, dalle carte nautiche, della esistenza di un mega porto, ma non era ancora realtà, era solo fantasia. Allora non ci pensò due volte, gettò l’ancora al largo e proseguì a nuoto. Poverino, pensava che una folla sterminata fosse in attesa del suo arrivo, invece lo accolse una spiaggia desolata di inizio estate sulla quale vide, sdraiata sotto un sole cocente, una ragazza in bikini. Il gigante le si avvicinò e disse “Sono il gigante e sono venuto per conoscere Latina, mi sa dire dove posso trovarla?” La ragazza, una bellissima ragazza, mora occhi verdi, lo guardò da capo a piedi, sorrise di un sorriso dolcissimo e disse: “Sono io, ti aspettavo”. Latina si sollevò sulle punte lo abbracciò e si baciarono. E vissero felici e contenti.

 

Roberto Palumbo

 

Latina 130510                                Il gigante di Andrea Soglia
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Ma purtroppo questa non è una favola e se ci sarà un lieto fine lo diranno i posteri. Molto probabilmente è presto per poter avere per la nostra città tutto quello che i cittadini desiderano. Il mio pensiero modesto è che nel tempo, fino ad ora, ci siamo interessati troppo e spesso a faraonici progetti che potessero cambiare il volto della nostra città. in effetti era sufficiente, in questi primi anni, renderla più attraente, più bella ed appetibile con interventi più di facciata, per darle più importanza  e renderla una città bella da andare a vedere e curiosare tra le sue piazze metafisiche. Solo dopo si sarebbero potuto realizzare dei collegamenti stradali degni di questo nome e che ancora oggi non abbiamo. Solo dopo si sarebbe potuto pensare alle terme, ai porti, agli aeroporti che oggi nemmeno ci sono nemmeno nella fantasia. Ma comunque la prima operazione necessaria per fare una città è quella di fare i cittadini.


Dove sono i latinensi?



Forse perché la stazione di Latina fa un po’ pena, pur con la sua architettura originale e caratteristica di un certo periodo, ed è sempre più difficile farne uso, forse è per questo che Latina ormai ha perso tutti i treni che di lì sono passati e che, per la verità hanno fatto finta di fermarsi, ma poi sono ripartiti a razzo. Fuori metafora, le terme, l’aeroporto, tutti i progetti tesi a far decollare il Turismo, la metro, pardon il tranvetto, la nuova pontina o corridoio tirrenico che sia, le varie bretelle, e forse ora il porto, sono altrettanti treni che hanno fatto solo finta di fermarsi al nostro scalo ferroviario. Ma forse era necessario prenderli al volo. Le uniche due cose che stiamo vedendo sono l’intermodale che funziona a singhiozzo e ancora non si sa che futuro avrà, e la nuova 156, una strada stile anni cinquanta, che nemmeno a Campobasso e nel profondo sud, con tutto il rispetto, ce l’hanno più, o se ce l’hanno è da cinquanta anni. Degli amministratori che si sono susseguiti al governo della nostra città le abbiamo dette tutte, della loro incapacità a farsi ascoltare dai politici in sede centrale, pur essendo quasi sempre dello stesso colore. Mi sembra quindi ripetitivo stare di nuovo a recriminare su quello che essi non hanno fatto per la loro e la nostra città. Ma, e qui sta la novità, se essi sono quel che sono, semplicemente lo sono perchè anche la gente in mezzo alla quale sono stati scelti, è fatta della stessa pasta. Mi spiego. Che la città di Latina abbia perso tutti questi treni importanti, e ne stia per perdere  altri, non è che alla gente comune interessi poi tanto. Se solo pensiamo all’ultimo scippo che ci hanno fatto, quello dell’aeroporto, penso che se fosse successo altrove sarebbe successo il finimondo, forse una sollevazione popolare. Qui, invece una scrollata di spalle e via. Intendiamoci, non è che stia invocando le rivolte popolari che altrove hanno portato intere popolazioni a rivendicare i propri diritti, ma penso che se la gente di Latina, tutta insieme, avesse fatto sentire la propria voce di protesta e di richiesta, i nostri politici, forse, pungolati a dovere, avrebbero fatto sentire di più la loro voce e avrebbero ottenuto qualcosa di più. Quello che manca quindi qui a Latina è la gente. La gente unita e coesa, capace di farsi sentire per difendere i propri diritti. E’ vero che Latina è una città giovane, ma, anche se gli ottanta verso cui sta viaggiando, non sono gran che per una città, qui esiste già gente, nata, cresciuta, e che si sta facendo vecchia in questa terra pontina. Una città giovane e piena di giovani, famosa per le belle ragazze e per una bella gioventù in genere, per gente importante in diversi campi, con qualche straccio di tradizione, anche se appena abbozzata Una città però che stenta a formare un abbozzo di comunità con interessi comuni. L’analisi che qui vorrei fare, senza voler dare colpe a chicchessia, ma solo per dire come sono andate le cose, che poi hanno portato alla attuale situazione di stallo, vuole dimostrare perché oggi a Latina i latinensi sono latitanti, e non sono come  i frusinati o i pescaresi, o i reggini. Si dirà subito che i latinensi sono gente venuta da fuori, con le loro tradizioni. Gente che è sempre stato difficile amalgamare. Però oggi vivono in città i nipoti di quelle persone venute da fuori, con le loro tradizioni. Possibile che anche costoro fatichino ad amalgamarsi tra loro. La causa secondo me va ricercata nello sviluppo urbanistico della città. Quando ero ragazzo, e parlo di quaranta cinquanta anni fa, il Giro di Peppe dove tutta Latina si riversava nel tardo pomeriggio per incontrarsi, grandi e piccini, stava cominciando a fare il miracolo di formare i cittadini insieme alla città. Ma la città ormai era diventata grande e nella circonvallazione cominciavamo a stare stretti. A quel punto, secondo logica sarebbe stato sufficiente allungare i viali già esistenti, tre per la precisione, Matteotti, Repubblica e Emanuele Filiberto. Munirli di negozi, uffici, abitazioni, con traverse altrettanto importanti ed alberate, piazze e piazzette che la gente avrebbe potuto frequentare per conoscersi, vedersi, parlarsi. Invece gli amministratori hanno preferito volare alto. Approvare un progetto, a dire il vero, bellissimo, originale e all’avanguardia per quei tempi, ma faraonico e difficile da realizzare da queste parti. A quei tempi Latina era piccolina e le casse del suo comune non credo fossero in grado di sostenere le spese enormi che una tale realizzazione avrebbe richiesto. Certo io lo dico col senno di poi, ma la cosa non doveva e non poteva sfuggire a politici ed economisti che hanno studiato per pianificare lo sviluppo del territorio. E’ vero ci fu anche la crisi di carattere mondiale che ridimensionò tutto, ma quel serpentone che lambendo la città nella zona nord e inglobando la famosa strada mare  monti, si dirigeva zigzagando verso il mare, fu realizzato a spizzichi e bocconi, e pure male, stravolgendo il progetto originario, inserendo residenze là dove vi dovevano essere uffici, con due stradoni, diventate mulattiere, rimaste tronche fino a qualche anno fa a livello della 148. Quello che fu realizzato in conformità al progetto furono, per la gioia dei palazzinari, i quartieri residenziali, rimasti dormitorio fino a ieri, senza negozi e centri di aggregazione per la gente. Oggi poi vedono la luce, in un mare di polemiche, due dei grattacieli previsti dal piano regolatore. Da tempo, poi, ci si lamenta che Latina ha un numero enorme di centri commerciali. Ma, certo che, se ancora oggi abbiamo sempre e soltanto le solite tre vie di cui parlavo prima, come faceva la gente che doveva pur fare la spesa, visto che la città nuova non offriva possibilità per questa necessità. Ecco allora l’esigenza nata per sopperire alla mancanza cronica di zone di aggregazione come le piazze e le strade, il negozio sottocasa, gli uffici e le residenze mescolate insieme per dare ai cittadini momenti di vita in comune e di socializzazione. Quel processo che forse il giro di Peppe aveva iniziato è stato bloccato dai quartieri dormitorio, le varie Q da 1 a 5, dalla 148 che per anni ha spezzato in due la città nuova e dal serpentone con ai lati i viali Nervi e Le Corbusier, nato male e a fatica. I centri commerciali sappiamo che non aggregano nessuno e non sono come una bella piazza sotto casa con i bar, il traffico, gli uffici e i negozi, né come un viale alberato dove pulsa la vita della città. Un’ultima cosa, forse il bel centro direzionale dei famosi architetti andava progettato per una città già grande e con i cittadini già belli e fatti, non qui dove c’era ancora da fare i cittadini. L’alternativa sarebbe stata un comune in grado di realizzare quel progetto, così come era, nel giro di una decina di anni. Latina avrebbe avuto dei cittadini degni di questo nome, non come quelli di oggi che non hanno preoccupazioni né interessi comuni. Ognuno pensa sempre e soltanto ai casi propri e non viene minimamente toccato dai problemi di una città che annaspa nei meandri bassi delle classifiche.

Roberto Palumbo
Latina 24 09 2008


La gente però è stata abituata a pensare alla realizzazione di grandi opere sbandierate ai quattro venti dai nostri amministratori. Oltre a terme porti e aeroporti, grande importanza hanno le strade che dovrebbero servire questa città che pochi conoscono, qualcuno non sa nemmeno che sia una provincia. e molti sanno solo che sta vicino Roma. Sono anni ormai che si discute se far una autostrada, su rimettere a posto la disastrata pontina, se fare una bretella che colleghi la città con l'autostrada.... e intanto non si fa nulla di nulla.




Bretelle corridoi e raccordi
 
 
 
La viabilità della nostra provincia come tutti sanno, versa in condizioni pietose, e se, finalmente, qualcosa oggi comincia a stento a vedere la luce, si tratta di strade nate già vecchie perché progettate cinquanta anni fa, adatte per il traffico di allora. Mi riferisco alla nuova centocinquantasei che, bene o male, una decina di minuti li fa risparmiare rispetto al vecchio tacciato. Anche se, con traffico intenso, per raggiungere l’autostrada, il tempo sarà sempre quello, vista la presenza della strettoia prima del ponte sulla A1. Ma questo è un altro discorso. Finalmente sembra anche che, entro quest’anno si comincerà con il collegamento Latina Roma, ed è già tanto. Ma destra e sinistra già da tempo stanno litigando sulla bontà delle loro proposte. Anzi pare che ognuno rivendichi a sé l’idea che pare stia per essere realizzata. Storace ne aveva pensata una, Marrazzo ne ha pensata un’altra, e noi cittadini di Latina dobbiamo subire, non solo le non scelte dei nostri amministratori, ma anche le scelte sbagliate, ognuno per proprio conto, delle amministrazioni regionali, prima di destra e poi di sinistra. Mi spiego. Se si guardano bene le due proposte, tra le quali pare abbia avuto la meglio quella di Marrazzo,  la prima quella di Storace, della quale la destra tanto si vanta ma che in tanti anni di governo non è riuscita a portare a termine, partiva da un presupposto interessante. Far proseguire il percorso proveniente da Livorno e Civitavecchia verso Latina e il sud pontino fino ai confini estremi meridionali con la Campania. Bella ed utile idea, certamente, ma il guaio, per la nostra provincia, stava nel fatto che si voleva creare una nuova super strada che si sarebbe incuneata tra Appia e Pontina. In uno spazio così esiguo, cioè, di nemmeno dieci chilometri. Non capisco perché non si poteva utilizzare il percorso di una delle due arterie, allargandone la sede. Capisco che le strade distruggono il territorio, ma se si continuano a costruire auto e camion, bisogna pur dare modo a questi veicoli di circolare. In questo caso, però, con tre importanti arterie in poco più di dieci chilometri, si sarebbe davvero esagerato. E allora, meno male che ci sono stati problemi di illegittimità della procedura usata da Storace per le gare d’appalto. Un buco nell’acqua, quindi della destra dopo tanti anni di governo. Oggi invece pare debba vedere la luce l’idea di Marrazzo, a cui non interessa creare continuità col percorso nazionale proveniente da Livorno. Semplicemente trasforma la Pontina in una autostrada, la quale, per i primi anni, almeno fino a che la viabilità a sud di Latina non verrà adeguata, vomiterà tanto di quel traffico verso Terracina che non si sa bene come verrà fatto defluire. Non solo, ma si dice che il progetto della Superpontina sarà tutt’uno con la bretella Cisterna Valmomtone. Una superstrada cioè a noi tanto utile, ma che in effetti viene costruita soprattutto per agevolare la Capitale. Mi sembra infatti che  si stia progettando l’ultimo segmento di una viabilità che possa costituire un secondo anello di circonvallazione intorno a Roma, risultante dalla unione tra  Fiumicino, Civitavecchia, Viterbo, Orte, Roma nord, Roma est, Valmontone, Cisterna, Fiumicino. Un raccordo esterno, non più anulare, ma dalla vaga forma triangolare, al cui centro pulsa l’attuale città di Roma, pensata apposta per poter abbracciare una vasta zona che, negli anni a venire, sarà interessata dallo sviluppo dell’area metropolitana della Capitale. Tutto nell’interesse accentratore di Roma caput mundi e fortemente penalizzante per noi che saremo sempre più suoi sudditi. Latina da sempre fatica a trovare una propria identità, e se la viabilità che ci daranno in futuro la intrappolerà in una rete che la legherà indissolubilmente con Roma facendone un satellite come già oggi Pomezia ed Aprilia, sarà finita, Saremo, anzi lo saranno i nostri figli che oggi sembrano disinteressarsi a questi problemi, dei romani di periferia, cioè dei burini. Naturalmente sarei ben lieto se queste fosche previsioni venissero smentite dai fatti. Si potrebbe obiettare, infatti, che l’essere legati a Roma ci potrebbe portare in cambio più servizi e tanti altri vantaggi. Ma, visto il degrado delle attuali periferie, è più facile credere il contrario. Questo per dire che in tanti anni non si è riusciti a dare al nostro territorio una viabilità capace di incanalare il traffico verso la rete nazionale, ed oggi si litiga sulla bontà di soluzioni raffazzonate e mal fatte oltre che mal pensate. Se solo si fosse tenuta per buona l’idea di Storace, evitando, però, di saccheggiare il territorio, ma allargando la Pontina o l’Appia, avremmo avuto un percorso più omogeneo da nord a sud. Insieme poi, alla bretella per Valmontone, avremmo potuto collegarci agevolmente con il resto del paese by-passando la ingombrante realtà romana. E già, sembra facile! Ma purtroppo in politica non esiste una soluzione giusta, o meglio sensata e logica. Gli avversari politici spesso sono in disaccordo tra loro per partito preso e, se uno dice bianco, l’altro deve per forza dire nero, magari a costo di arrampicarsi sugli specchi per cercare di trovare delle giustificazioni a quello che dice. Non c’è verso che si possa trovare un accordo prendendo il buono che ciascuno propone. E noi cittadini ne subiamo le conseguenze.

Palumbo Roberto


Latina 050109

C'è stato un tempo in cui il sindaco Vincenzo Zaccheo si era messo in testa di fare la metro, in effetti un tram di superficie che andasse dalla Stazione dei treni a quella delle autolinee per proseguire poi verso il lido. Un'opera utilissima ma troppo costosa e difficile da realizzare.





Tranvetto o metro



Caro Direttore, i cittadini di Latina stanno sfogliando, di nuovo, la classica margherita. Si fa o non si fa…la ormai famosa metro? Secondo me questa opera, come tutte le altre del resto, promesse e non fatte o mal fatte, è partita con il piede sbagliato. Penso, infatti che Latina non abbia bisogno di un tranvetto che, come in un film di Fellini si infila, tutto sferragliante, tra i palazzi del quartiere e porta scompiglio tra i tavolini dei bar. Se la immagina una doppia linea di tram che entra in corso Matteotti e prosegue per le vie del centro? Non oso nemmeno pensarci. Ma quelli di Fellini erano altri tempi. Oggi Latina si può dotare, in tempi brevissimi di una vera e propria metro di superficie. Penso alla famosa, e non ancora realizzata, “mare monti”, strada a scorrimento veloce che dovrebbe andare  dalla stazione al mare. Perché non prevedere al centro, tra le due carreggiate, un ampio spazio dove far passare le due linnee della Metro, ogni tanto si potrebbero realizzare delle stazioni con relativo parcheggio di scambio, magari a più piani dove poter parcheggiare l’auto in tutta sicurezza e prendere così la metro che, in queste condizioni potrebbe viaggiare sicura e veloce, ed avere proprio le caratteristiche di una metropolitana. Accelerazione, decelerazione e una frequenza abbastanza ravvicinata dei passaggi. Gli esperti potrebbero fare i conti e verificare la convenienza, nei tempi di percorrenza, di una tale soluzione che mi sembra la più sensata. Non conosco quale sia il percorso di questa benedetta strada “Mare Monti”, ma qualunque esso sia, e certo non potrà passare per piazza del Popolo, la metro dovrà per forza correre al suo interno, come una linea al servizio, non solo della città, ma anche e soprattutto del territorio. E poi, azzarderei anche l’ipotesi di far scivolare questa metro sotto la città, dalla periferia est a quella ovest, per capirci, dalla Strada Congiunte destre, fino alla via Nascosa. Lo so, sembrerebbe un’opera faraonica. Ma, mi domando, perché queste opere quando devono essere fatte a Latina diventano sempre faraoniche? Faccio notare che il fior fiore delle città del sud, e non parlo di quelle ricche del nord, hanno costruito, già trenta quaranta anni fa, con l’aiuto dello Stato, sotterranee e sopraelevate da paura, che oggi ci permettono di raggiungere, in poco tempo, mete che negli anni sessanta sembrava fossero su un altro pianeta. Il problema è che il nostro povero territorio è stato dimenticato, da sempre, dal governo centrale, nonostante il potere politico dei nostri amministratori sia sempre stato uguale a quello del governo di Roma. Capisco che, al punto in cui siamo, nell’iter della realizzazione della metro, è difficile che si cambino le carte in tavola, ma, visti i precedenti, e soprattutto, visto che ancora sono tante le chiacchiere e pochissimi i fatti intorno a questa metro un po’ sui generis, è anche possibile che la realizzazione di questa opera sia ancora di la da venire. Giova allora fare oggi quel dibattito che, come al solito, non si è fatto a suo tempo. E’ indubbio che un collegamento veloce  tra mare città e stazione sia necessario, e allora mi piacerebbe leggere, sulle pagine del suo giornale, anche altre proposte, invece delle solite critiche distruttive che riempiono le pagine dei giornali. E mi piacerebbe, ovviamente, sentire anche il suo parere. La saluto.
                                                                                                                                      Roberto Palumbo
Latina 06 03 2010